L’ Alzheimer colpisce più di 25 milioni di persone nel mondo e solo in Italia 600 mila persone.
Una malattia che nei prossimi anni vedrà raddoppiare il numero delle persone colpite da questo terribile morbo.
Dal 1906 anno della sua scoperta non si è riuscito al momento a trovare un farmaco che possa fermare questo terribile morbo o addirittura farlo regredire.
Il morbo di Alzheimer è una patologia che colpisce le persone che hanno un’età superiore ai 65 anni, solo in pochi casi si manifesta prima, e principalmente è una malattia ereditaria.
Negli ultimi anni oltre al fattore genetico si è scoperto che anche il diabete e il fumo concorrono a determinare l’insorgenza di questa terribile patologia che si manifesta con difficoltà di linguaggio, perdita di memoria e con la cancellazione, nello stato avanzato, dei ricordi tanto da portare il malato a non riconoscere neppure i propri parenti.
Una malattia che non colpisce solo il paziente ma anche tutti coloro che da sempre gli sono stati vicini.
Uno studio di alcuni ricercatori dell’università di California pubblicato sull’importante rivista “Nature Neuroscience” ha dimostrato che in un primo momento il cervello reagisce all’insorgenza del morbo con le riserve cognitive aumentando la sua attività.
Quando il morbo di Alzheimer si sta formando accumulando proteine beta amiloide che pian piano distruggono le cellule celebrali il cervello cerca di combattere questo processo aumentando la sua reattività riuscendo, però, solo per poco a contrastare l’insorgenza del morbo.
Questa capacità del cervello di combattere almeno inizialmente la nascita del morbo è stata studiata dai ricercatori californiani su 71 pazienti.
Si è potuto notare che da alcuni test che nei pazienti che manifestavano l’Alzheimer nello stadio iniziale la capacità di risposta del cervello era molto più rapida rispetto agli altri soggetti che avevano partecipato da sani.
La ricercatrice Laura Phipps,del centro di Ricerca sull’Alzheimer in Gran Bretagna ha così commentato lo studio dei colleghi statunitensi: “Questo piccolo studio suggerisce che il nostro cervello può avere modi di resistere al danno precoce da proteine, ma sono necessari ulteriori ricerche per sapere come interpretare questi risultati. Studi a più lungo termine sono necessari per confermare se l’attività cerebrale in più, rilevata in questa ricerca, è un segno del cervello per compensare i danni presto, e se sì, per quanto tempo il cervello possa essere in grado di combattere questo danno”.
Ora gli studi dei ricercatori californiani si concentreranno sul come fa il cervello a contrastare, nella fase iniziale l’avanzamento del morbo nel tentativo di scoprir un farmaco che possa produrre lo stesso effetto ma più duraturo.